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Silence: la Passione rovesciata

Io prego ma sono sperduto. Alla mia preghiera risponde il silenzio (Padre Sebastiao Rodrigues)

“Silence” è il film che Martin Scorsese ha inseguito per quasi trent’anni, preceduto da “L’ultima tentazione di Cristo” (1988) e “Al di là della vita”(1999), e realizzato dopo numerosi ritardi, difficoltà produttive e perfino una causa legale con il nostro Vittorio Cecchi Gori. E’ un film molto lontano dalla regia ricca di virtuosismi e fortemente espressionista, nei sentimenti e nella violenza, a cui siamo stati abituati con “Goodfellas”(1990), “Casinò”(1995), e il più recente “Wolf of Wall Street”(2013). “Silence” presenta uno stile decisamente più raccolto, meditativo, quasi rarefatto; non ci sono musiche, la sceneggiatura è scarna ed essenziale, il montaggio ridotto al minimo. La storia di Padre Rodrigues (Andrew Garfield), inviato in Giappone nel 1637, all’apice delle persecuzioni contro i cristiani, insieme a Padre Garupe (Adam Driver), allo scopo di ritrovare il suo mentore, Padre Ferreira (Liam Neeson), è in realtà un doloroso percorso di accettazione della materialità, del silenzio di tutte le cose, e un violento scontro tra culture radicalmente opposte. 

Il martirio mancato di Padre Rodrigues è una Passione rovesciata in cui, scambiando la superbia per devozione, il gesuita crede di vivere ad immagine e somiglianza di Cristo (di cui vede il volto riflesso sulle acque sovrapporsi al suo), scaricando inconsapevolmente sui fedeli le conseguenze del suo peccato (“Prega, ma fallo ad occhi aperti”, gli dirà infatti uno dei torturatori). Davanti al ricatto morale dei suoi aguzzini, Padre Rodrigues non rinuncerà alla fede cristiana, ma alla pretesa di incarnarla nella propria esistenza terrena (come, d’altra parte, i protagonisti di “Goodfellas”, “Casinò” e “The Wolf of Wall Street” pagano laicamente la propria arroganza con l’autodistruzione). 

Dice Padre Ferreira, raccontando a Padre Rodrigues della missione del gesuita Francis Xavier: “«Xavier venne qui per parlare ai giapponesi del figlio di Dio. Prima, però, dovette chiedere come ci si riferiva a Dio. “Dainichi” (Il sole) gli risposero […]. Nelle scritture Gesù risorge nel terzo giorno. In Giappone, il solo sorge ogni giorno. I giapponesi non sanno pensare a un’esistenza oltre il regno della natura. Per loro nulla trascende l’umano». Per quanto animato da buoni propositi, il tentativo dei gesuiti di imporre un sistema di pensiero contrario all’identità culturale giapponese (che prescinde da qualsiasi credo politico o religioso) resta un abuso inaccettabile, e sotto questa luce diventa comprensibile anche la posizione inflessibile degli inquisitori giapponesi nei confronti di un innesto ritenuto destabilizzante (in questo senso, “Silence” è molto diverso da altri film sul tema, come “Mission”, perchè la violenza, sembra dirci Scorsese, sta da entrambe le parti).

“Prega, ma fallo ad occhi aperti” non è solo l’invito a rinunciare ad un martirio inutile e ingiustificato, ma ad ascoltare con umiltà ciò che è altro da noi, le sofferenze dell’uomo, la sua indole di peccatore (personificata dall’ambiguo Kichijiro, che tradisce, si pente e abiura in continuazione), il silenzio della Natura, perfino delle immagini sacre, perchè gli oggetti sono pura formalità e penetrare la nuda materialità delle cose resta impossibile. 

 

+++SPOILER ALERT: IN SEGUITO POTREBBERO ESSERE RIVELATI DETTAGLI DELLE SCENE FINALI+++

Dopo l’abiura, “l’ultimo prete non aveva più accennato al Dio cristiano, nè con parole, nè con simboli, non aveva mai parlato di Lui, e non aveva mai pregato, neanche in punto di morte, la questione della fede era da tempo conclusa per lui […] L’uomo che un tempo si chiamava Rodrigues finì come loro volevano, perduto a Dio… ma a questo, in realtà, soltanto Dio può rispondere”. Un lungo carrello finale “entra” nella sua bara e mostra un piccolo crocifisso di legno stretto tra le sue mani. Silence. 

 

Giulio Aronica

  • febbraio, 13
  • 1448
  • Cinema, Giulio Aronica
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La società liquida e il cinema postmoderno

“Tutti i punti di riferimento che davano solidità al mondo e favorivano la logica nella selezione delle strategie di vita (i posti di lavoro, le capacità, i legami personali, i modelli di convenienza e decoro, i concetti di salute e malattia, i valori che si pensava andassero coltivati e i modi collaudati per farlo), tutti questi e molti altri punti di riferimento un tempo stabili sembrano in piena trasformazione. Si ha la sensazione che vengano giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante il gioco cambino le regole di ciascuno. Questa nostra epoca eccelle nello smantellare le strutture e nel liquefare i modelli, ogni tipo di struttura e ogni tipo di modello, con casualità e senza preavviso.” (“L’istruzione nell’età postmoderna” – Zygmunt Bauman)

La morte del grande sociologo polacco Zygmunt Bauman ci consente di tornare su un tema che avevamo già affrontato in passato: il Postmoderno. Nella “Condizione Postmoderna“ (14/7/2014), partendo dal noto saggio del francese Jean François Lyotard, avevamo declinato la definizione di Postmodernismo attraverso tre assi concettuali: il crollo delle ideologie e delle grandi narrazioni, la crisi dell’industria fordista e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Quanto il Novecento era stato il secolo dove l’aspirazione a valori sociali e morali universali si era affermata attraverso la ragione e la tecnica, così il suo crepuscolo ci restituisce un pensiero “debole”, senza fondamenti, privo di un linguaggio universale per interpretare, o anche solo leggere, un mondo più caotico, “liquido” e frammentato. 

Bauman sviluppa queste premesse analizzando le nuove paure e le nuove solitudini dell’uomo “postmoderno” immerso nel villaggio globale, la crisi dello Stato, dei partiti e dei corpi intermedi, e le nuove forme di organizzazione del lavoro. L’ideologia del mercato, della competizione e del consumo ha riempito il vuoto lasciato dal fallimento delle utopie rivoluzionarie degli anni ’60/70, ma le recenti crisi finanziarie ed economiche hanno aumentato la forbice sociale, trasformando quegli stessi oggetti di consumo in beni di lusso, riservati ad un’elite sempre più circoscritta. La reazione, secondo Bauman, è la formazione di vasti movimenti di indignazione popolare che, pur sapendo cosa NON vogliono, non hanno ancora chiaro quello che realmente desiderano. Il Postmodernismo si configura quindi come un momento di passaggio, temporaneo, verso un futuro tutto da definire.

In ambito cinematografico, il Postmoderno si interseca con pulsioni decisamente nichiliste; nel cinema dei fratelli Coen, non solo la società è popolata da personaggi così violenti e grotteschi (“Non è un paese per vecchi”, 2007), da giustificare la scelta marginale e rinunciataria dei suoi protagonisti (“Il grande Lebowski”, 1998), ma la natura stessa appare priva di senso e di razionalità, ed essere “A serious man” (2009), un uomo retto e onesto, rischia di non bastare…

Chi porta fino alle estreme conseguenze queste tendenze è Quentin Tarantino; i suoi film sono un impasto di citazioni cinefile, musicali e letterarie, di situazioni e dialoghi illogici e paradossali, di violenza gratuita spinta fino al parossismo. Manca uno sfondo storico, una coscienza politica e morale, perfino una logica interna, perchè se nulla ha più senso, la verità si dà solo nella forma, nel linguaggio, e nelle sue infinite combinazioni possibili. 

Una strada intermedia sembra essere quella tracciata dal giovane regista americano Paul Thomas Anderson; erede spirituale di Robert Altman, Anderson, dopo aver raccontato il lato più oscuro, ambiguo e violento della società americana (“Il petroliere”, 2007; “The Master”, 2013), scopre lo scrittore postmoderno Thomas Pynchon e riadatta per il cinema il suo romanzo “Vizio di Forma”. Fedele al testo, Anderson procede per accumulo di storie, personaggi e situazioni, sacrificando la coerenza e la fluidità del racconto, e le indagini del suo investigatore fumato e squattrinato (un grandioso Joaquin Phoenix), ispirato liberamente al detective Philip Marlowe del “Grande sonno” di Howard Hawks, probabilmente non approderanno a nulla. Purtuttavia, la coscienza politica e morale con cui Anderson, attraverso gli occhi stralunati del suo protagonista, traccia un affresco dell’America di fine anni 70′, dove nuovi protagonisti si affermano (si intravedono durante il film il presidente Nixon e il governatore della California Ronald Reagan), e le utopie rivoluzionarie della controcultura hippy sono diventate ormai uno strumento nelle mani dello stesso Potere che volevano abbattere (la ex-fidanzata del protagonista, Shasta, è passata da hippy a “puttana dei palazzinari”; la droga importata sulla nave Golden Fang viene venduta agli hippies che andranno a disintossicarsi nelle cliniche gestite dal cartello), è sorprendentemente lucida e corrosiva. 

Resta questo “vizio di forma” (nell’ambito del diritto marittimo, è tutto ciò che non può essere assicurato “come le uova che si rompono, la cioccolata che si scioglie, un bicchiere che si frantuma”), intrinseco, per cui ogni cosa, anche la più bella, è destinata inspiegabilmente a deperire, consumarsi e finire. Per ora, tuttavia, come sembra suggerire il finale del film, accontentiamoci di tenere gli occhi aperti, in attesa che “questa benedetta nave si diriga verso un migliore approdo, risorta e redenta”. 

 

Giulio Aronica

 

 

 

 

  • gennaio, 11
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